Wednesday, April 11, 2007
Fassino scopre gli italiani morti nei gulag
Fare i conti con la storia, dice Piero Fassino. È un conto che dura da anni quello dei diessini con la loro storia, con l’ombra del Pci in cui sono cresciuti tutti gli attuali leader della Quercia. Un tragitto faticoso, lacerante che parte dalla Bolognina dell’89, la svolta da cui nacque la prima figurazione politica del post-comunismo, e si allunga verso l’orizzonte incerto del partito democratico. Ed è parlando di questa nuova tappa nel percorso di affrancamento dall’eredità comunista che Fassino è tornato a fare quel conto, annunciando un ennesimo viaggio simbolico: «I conti con la storia vanno fatti sempre con coerenza - ha detto il segretario dei Ds ospite del forum di Repubblica.it -. Noi li abbiamo fatti e proprio per questo a fine giugno sarò a San Pietroburgo per rendere omaggio agli italiani vittime dei gulag staliniani». Furono migliaia gli italiani vittime del Terrore staliniano che finirono fucilati o internati nei Gulag. Sulla loro storia, anche dopo il ’56, calò il silenzio in Italia, complice il Pci. Ma se il viaggio di Fassino non avrà la violenza di uno strappo, sarà almeno una sosta di un percorso che lentamente e tardivamente cerca di arrivare al termine. E che ha visto in passato lo stesso Fassino regista del revisionismo interno al partito. Nel 2003 fu attaccato duramente dal Manifesto, lui e il vignettista Staino, per aver mosso contro un altro mito del passato, la Cuba di Castro. Anche allora, sostenendo alla Camera il voto dei Ds sulla mozione contro le «inammissibili» condanne agli oppositori del regime castrista, Fassino usò quell’espressione, «fare i conti». «Perché Cuba ha rappresentato per un certo periodo una speranza - spiegò Fassino in Aula -, è stata un punto di riferimento in un’America latina caratterizzata da colossali ingiustizie». Ma, concluse, «essa ha rappresentato una speranza che presto si è rivelata vana. Noi vogliamo che a Cuba ci sia democrazia e libertà».Niente però al confronto di D’Alema che, da premier nel 1998, si convertì per davvero: «Sul comunismo aveva ragione il Papa, l’ideologia crea vuoto spirituale». E nemmeno di Walter Veltroni, che a Trieste nel febbraio 2005, primo leader della della sinistra in visita nei luoghi delle foibe e degli eccidi titini, si abbandonò ad un giudizio ancora impensabile per un ex deputato del Pci: «Il comunismo ha prodotto un immenso dolore», disse. «Il comunismo reale era odioso e nemico, i leader sovietici mi facevano pena» spiegò allora Veltroni, con qualche decennio di ritardo sulla storia.
Il 10 dello stesso mese, che da allora sarebbe diventato il «Giorno del ricordo», anche Fassino prese la gomma per cancellare capitoli interi di ortodossia comunista: «Le foibe - disse - sono una pagina dolorosa della storia italiana, troppo a lungo negata e colpevolmente rimossa». Anche una altro membro del Politburo diessino, Luciano Violante, ebbe a riconoscere che «il Pci ha gravi responsabilità» sulla tragedia dei profughi istriani. Ed era stato sempre Violante, dieci anni prima, a toccare un altro nervo scoperto squadernando per primo l’agiografia della Resistenza divisa, incrollabilmente, in buoni e cattivi. Quando da presidente della Camera disse che i «vinti di Salò andavano capiti», distinguendo i giovani arditi dai gerarchi, Gianfranco Fini si alzò dai banchi per andargli a stringere la mano. «È un grand’uomo» esplose Storace. La memoria condivisa, la riappacificazione, il sangue dei vinti. Ancora Piero Fassino, ancora una svolta. Quasi nascosto sull’Unità, nel 2003, Fassino prese le distanze dalle violenze partigiane, e anche lì tornò la stessa formula: «Dobbiamo fare i conti - scrisse - con le vicende tragiche dell’immediato dopoguerra, quando la vittoria agognata acceca la la ragione dei vincitori e i vinti sono più vinti e indifesi che mai».
Tratto da www.ilgiornale.it del 11-4-20007
Saturday, January 20, 2007
Il fantasma del revisionismo
Chi ha paura e perché dell'unica strada che può portare l'Italia fuori dalla guerra fredda
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it
Saturday, January 06, 2007
Il terrore rosso in presa diretta
Lo stalinismo e la sinistra italiana» di Zaslavsky spiega quali furono (e sono) le radici del successo dell'ideologia comunista.
Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla». CONTROLLI SUI «COMPAGNI» Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere». BUDAPEST INSANGUINATA Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.
(www.storialibera.it)
Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla». CONTROLLI SUI «COMPAGNI» Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere». BUDAPEST INSANGUINATA Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.
(www.storialibera.it)
Wednesday, November 29, 2006
Quel che ancora non si è detto dopo l’89 di Victor Zaslavsky
Perché Robert Conquest può aiutare la storiografia italiana a riempire un vuoto; cerchiamo di fare il punto sullo sterminio dei Kulaki ucraini.
Rileggi Chi è Robert Conquest e cosa ha pubblicato
Rileggi Chi è Robert Conquest e cosa ha pubblicato
Raccolto di dolore di Robert Conquest sarebbe dovuto uscire in Italia nel 1987 o al più tardi nel 1988. In quel periodo insegnavo in un’università italiana e avevo suggerito alla mia casa editrice di acquisire i diritti del libro di Conquest: mi fu detto che un’altra grande casa editrice italiana aveva già acquistato i diritti e che il libro stava per uscire. Questo importantissimo libro di Conquest finalmente esce ora, con una casa editrice diversa, liberal Edizioni, arricchita da una prefazione di Federigo Argentieri e da una post-fazione di Ettore Cinnella, ambedue ottime, basate sugli ultimi risultati della ricerca storiografica internazionale. Questo, a mio avviso, è l’unico vantaggio proveniente dal ritardo di quasi due decenni con il quale questo libro adesso esce, perché alla fine degli anni Ottanta il libro avrebbe suscitato in Italia un ampio dibattito e avrebbe dato al pubblico italiano un importante strumento per capire le ragioni dell’avvenimento epocale che si stava svolgendo di fronte all’incredula opinione pubblica mondiale: il crollo dell’impero sovietico e lo scioglimento dell’Unione Sovietica come unità politica. Mi vengono in mente molti altri episodi di quel fenomeno che potrebbe essere definito di «censura sotterranea» in Italia, che ha avuto come conseguenza diretta la disinformazione dell’opinione pubblica. Ricordo per esempio i miei i tentativi e quelli di altre persone, cominciati a partire dal 1975, di fare uscire in prima edizione mondiale italiana l’importantissimo romanzo di Vasilij Grossman Vita e destino, che fu poi finalmente pubblicato nel 1984 dopo essere diventato un best-seller in Francia e in Germania. (Non va dimenticato che Grossman ha anche scritto Tutto scorre, pubblicato da Adelphi nel 1987, il miglior romanzo sul Holomodor, come gli ucraini chiamano lo sterminio dei contadini per fame organizzato dal governo staliniano negli anni 1932-’33). Il fatto che l’Italia non abbia ancora fatto i conti con lo stalinismo e l’incomprensione del fenomeno del totalitarismo sono in gran parte dovuti a questa censura morbida, alla deliberata disinformazione diffusa da certe forze politiche e culturali. Dunque l’uscita di questo libro di Robert Conquest dovrebbe sollecitare una riflessione sull’eredità dello stalinismo in Italia e sull’influenza che il totalitarismo ha continuato a esercitare anche fuori dal suo tempo massimo. All’epoca della sua uscita Raccolto di dolore ha suscitato molte controversie tra gli storici del sistema sovietico che prima del crollo dell’Unione Sovietica, della nascita dell’Ucraina indipendente e dell’apertura degli archivi sovietici non potevano essere definitivamente risolte. Le due principali questioni riguardavano il numero delle vittime della fame del 1932-’33 e il carattere di questo sterminio, se cioè era da considerarsi un fenomeno definibile come «pulizia etnica», deliberatamente diretta contro il gruppo degli ucraini, oppure come «pulizia di classe», quindi non centrata su un particolare gruppo etnico. Oggi possiamo dire che entrambe le controversie hanno trovato una risoluzione soddisfacente, grazie ai lavori della comunità scientifica internazionale, agli sforzi degli storici e dei demografi ucraini e russi, e agli studi di storici italiani come Andrea Graziosi, Giorgio Petracchi e altri. La cifra delle vittime del Holomodor, le sue conseguenze demografiche, oscillano tra 3 milioni e mezzo e 4 milioni e mezzo di vittime, come hanno stabilito Stanislav Kulcickij e il demografo russo Maksudov; la differenza dipende dalle metodologie utilizzate e dalla difficoltà di procedere a una valutazione precisa dell’impatto delle migrazioni interne. Le esagerazione degli anni Settanta e Ottanta, quando nelle pubblicazioni della diaspora ucraina in Canada si potevano trovare riferimenti a 10 o 12 milioni di vittime, erano giustificate dall’impossibilità di accesso alle statistiche e ai dati del censimento del 1937. Ricordiamo che per nascondere la cifra delle vittime dello sterminio l’amministrazione staliniana fucilò tutti i dirigenti del Comitato statistico sovietico, sciolse l’Istituto Demografico dell’Accademia delle scienze, distruggendo così l’intera disciplina di demografia nell’Unione Sovietica, e falsificò le cifre sulla crescita della popolazione sovietica nel censimento del 1939. Anche altre controversie sono state risolte come quella secondo cui lo Holomodor non fu nient’altro che la punizione della popolazione ucraina per la sua resistenza alla collettivizzazione, punizione motivata anche da un presunto odio di Stalin verso gli ucraini come gruppo etnico. Secondo Kulcickij, storico ucraino e massima autorità sul problema dello sterminio del ’33, la prevalenza degli ucraini tra le vittime non fu il risultato di una predeterminata azione del governo staliniano contro gli ucraini: la morte dei contadini ucraini fu il risultato di una deliberata politica di confisca delle derrate alimentari, diretta contro un determinato gruppo sociale, cioè i contadini residenti in un certo direttorio. Nell’autunno del ’32, dato che l’Ucraina e la regione del Kuban’, popolata prevalentemente di russi, non raggiunsero le quote delle forniture obbligatorie di grano stabilite dalla pianificazione centrale, lo Stato confiscò alle famiglie contadine non soltanto il grano ma anche le altre derrate alimentari, provocando una terribile carestia e morte per fame. Kulcickij ha esaminato i dati di tutti gli uffici anagrafici regionali e ha stabilito che la morte per fame dipendeva dal luogo di residenza e non dalla nazionalità della vittima. In Ucraina la mortalità di russi e di ebrei che risiedevano nelle città era bassa, dato che chi abitava in città poteva utilizzare le tessere annonarie, mentre la mortalità degli ucraini, ma anche dei polacchi e dei bulgari che in quanto contadini vivevano nelle campagne, era molto alta. I dati sulla mortalità dei contadini russi che risiedevano nelle adiacenti province del Kuban’ erano però simili a quelli ucraini. Vorrei soffermarmi su un altro problema di importanza fondamentale per la storia sovietica e per quella di altri regimi totalitari del Ventesimo secolo. È un problema che continua a essere dibattuto nella storiografia russa ma anche nella cerchia della sinistra europea e in particolar modo in quella italiana: si tratta della definizione di vittima del regime politico staliniano e di come si distingue un criminale comune da un criminale politico. La conta delle vittime del regime totalitario dipende da questa definizione. Lo storico russo Valentin Zemskov ha per primo avuto l’accesso ai dati degli organi di sicurezza statale sul numero dei detenuti nei lager sovietici, in diversi periodi della storia sovietica, sul numero delle sentenze capitali e sulla dinamica delle repressioni: le cifre sono ufficiali e provengono dal Ministero degli Interni. Nelle sue pubblicazioni Zemskov non solo ha dato un’eccessiva fiducia ai dati forniti dagli organi repressivi che erano ovviamente interessati ad abbassare il numero delle vittime, ma ha anche fornito la sua definizione delle vittime del regime totalitario: una definizione che ha influenzato certi studi degli storici occidentali ed è stata ampiamente utilizzata per dare una valutazione generale sugli effetti del totalitarismo sovietico. Ecco la conclusione del giudizio di Zemskov sulla collettivizzazione e sul numero delle sue vittime: «Gli storici includono spesso i morti della fame del ’33 nel novero delle vittime della repressione politica staliniana. Lo Stato con la sua politica fiscale ha commesso un grande crimine contro milioni di contadini, ma questo non giustifica che vengano catalogati come “vittime della repressione politica”: sono stati vittime della politica economica dello Stato». La logica di questo ragionamento è la seguente: lo Stato sovietico promulgò una serie di leggi secondo cui i tentativi dei contadini di nascondere i prodotti alimentari al fine di sfamare la propria famiglia venivano considerati reato punibile con la reclusione in un gulag o addirittura con la pena capitale e definirono i contadini agiati, i cosiddetti kulaki, «nemici del popolo». Le persone condannate sulla base di questi decreti possono essere definite quindi criminali comuni o al massimo vittime di una dura legislazione, ma non vittime dello stalinismo. Questo giudizio è condiviso da alcuni studiosi occidentali, per esempio dallo storico australiano Wheatcroft, che ha paragonato le dimensioni e la natura delle repressioni nei regimi di Stalin e di Hitler seguendo l’approccio suggerito da Zemskov. Wheatcroft cerca di dimostrare che la morte dello sfortunato contadino, definito kulak, per fucilazione o per fame nel campo di lavoro forzato, rientra nel computo delle vittime dello stalinismo, mentre la morte per fame di alcuni suoi figli, rimasti orfani o di quanti si procuravano il pane per loro, deve essere catalogata come una morte prematura, causata da semplice negligenza o da crudeltà e non deve essere presa in considerazione nella comparazione dei crimini nazisti e stalinisti. Questo approccio già fortemente criticato da Robert Conquest e da altri studiosi occidentali è contestato anche oggi da vari storici russi e ucraini perché ignora il fatto che la collettivizzazione fu un’operazione ideologica e non economica. Per esempio, il decreto del gennaio 1930 «Sulle misure per la liquidazione delle aziende dei kulaki» che dichiarò tutti i contadini agiati - senza per altro definire il concetto della presunta agiatezza - come controrivoluzionari e soggetti alla liquidazione, non fu un atto giuridico bensì ideologico, che giustificava il terrore di massa. Fu una parte integrante della politica dello sterminio nei confronti di tutta la classe contadina, non soltanto dei kulaki: lo Stato prevedeva la fame, ne conosceva le dimensioni ma continuava a esportare il grano all’estero, lasciando che milioni di contadini morissero di fame. Storici russi come Vassilij Popov e Vladimir Zima, per sottolineare l’assurdità dell’approccio formalistico agli atti dello Stato totalitario, suggeriscono questo esempio: nel 1947 il governo staliniano promulgò il decreto «Sulla responsabilità penale per il furto della proprietà statale o colcosiana», noto popolarmente come il decreto «Su cinque spighe di grano». Sulla base di questo decreto in un anno sono state condannate e mandate nei lager più di 200 mila persone, in stragrande maggioranza donne colcosiane che per sfamare i propri figli rubavano uno o due chili di grano. Nonostante quell’anno la raccolta fosse stata molto bassa a causa della siccità, lo Stato aumentava le esportazioni di grano all’estero. Pietro Nenni, come ministro degli Esteri italiano, chiese varie volte del grano anche per l’Italia, ma il governo sovietico rispose che non ne aveva perché era già tutto destinato alla Francia, alla Finlandia e così via. Per la statistica sovietica i condannati a causa del decreto «Su cinque spighe» erano quindi criminali comuni: non rientrano dunque nella conta, nei dati e nel metodo interpretativo di Zemskov e di alcuni altri storici politici occidentali. Recentemente anche in Occidente sono ricominciati a circolare numeri molto restrittivi presi dalle ricerche di Zemskov che ridimensionerebbero clamorosamente le repressioni avvenute. Si parla di una cifra intorno ai 3 milioni di condannati durante il periodo staliniano, di cui appena 800 mila giustiziati. In un recente libro sulla storia sovietica, il noto storico Moshe Lewin, valutando il numero delle vittime del terrore di massa staliniano e il suo effetto sulla popolazione sovietica, si basa proprio su dati forniti da Zemskov che risalgono, a loro volta, al viceministro degli Interni staliniano Sergej Kruglov. Insomma, continua a sopravvivere la tradizione intellettuale che giustifica i delitti dello stalinismo con i presunti vantaggi e i benefici che la modernizzazione staliniana avrebbe procurato alla popolazione sovietica. In un articolo pubblicato sul Nouvel Observateur, Rossana Rossanda ha affermato che la repressione stalinista nell’Unione Sovietica fu molto meno severa di quanto si fosse pensato in precedenza e che il numero dei detenuti nei gulag fu solo di due milioni e 631 mila 397 persone, mentre le sentenze capitali eseguite colpirono più o meno 800 mila persone. I numeri calcolati con precisione fino all’ultimo condannato sono abbastanza alti da non richiedere ulteriori esagerazioni, afferma la Rossanda ricordando invece gli effetti benefici dello stalinismo in Unione Sovietica: la creazione del partito dei costruttori del socialismo che ha alfabetizzato le masse, l’aumento della produttività, il rafforzamento dell’urbanizzazione, la liberazione delle donne, la modernizzazione del Paese e infine la vittoria nella guerra contro il nazismo. Se si pensa che nel ’33, quando nelle campagne morivano milioni di contadini, l’Urss esportò 1,8 milioni di tonnellate di grano, non si può non riconoscere che quello dell’Ucraina fu un genocidio organizzato. E non si può non comprendere l’indignazione di un uomo come Alexandr Yakovlev, che è stato a lungo braccio destro di Gorbaciov e che oggi dirige la Fondazione Democrazia, dedita allo studio e alla pubblicazione dei documenti sui crimini del totalitarismo sovietico, di fronte a certe argomentazioni. Si potrebbe notare per esempio, come dimostrano storici come Oleg Chlevniuk, che ci furono quasi 700 mila fucilati in 14 mesi durante il periodo del grande terrore tra il luglio del ’37 e l’ottobre del ’38, mentre nello stesso periodo ci furono circa 350 mila persone morte durante gli interrogatori... Ma forse queste cifre non si mettono in conto, perché non si tratta di condannati. Oggi, alcuni storici russi vicino alle associazioni cercano di condurre una ricerca sulla pratica di rilasciare dai lager detenuti nella fase terminale di vita, per abbellire così la statistica della mortalità; secondo l’approccio degli storici che ho descritto dunque, anche chi è stato rilasciato un mese o qualche settimana prima della morte non rientra nel novero delle vittime dello stalinismo! Ma la discussione sul numero delle vittime e sul significato del terrore staliniano andrà avanti finché quella folta schiera di politici, di professori, di scrittori e di influenti giornalisti europei e americani che mobilitano le loro energie per convincere il pubblico che i tiranni moderni erano liberatori e che i loro imperdonabili crimini, visti da una prospettiva giusta erano nobili azioni, continueranno a scrivere e a mantenere posizioni di prestigio e di utilità. Le loro argomentazione sono tipiche di una certa mentalità, sempre concentrata sulle idee del progresso sociale di cui la gente un giorno sarebbe stata appagata e per la cui ritrattazione non sarebbe stata in grado di apprezzarne la futura felicità. Riflettendo sull’esperienza del Ventesimo secolo, l’eminente filosofo americano Richard Rorty ha scritto: «Il marxismo non fu soltanto una catastrofe per tutti i Paesi in cui i marxisti sono stati al potere, ma anche un disastro per la sinistra riformista in tutti i Paesi dove i marxisti non sono andati al potere». Avendo compiuto il proprio dovere nel fare i conti con il fascismo, la storiografia italiana è finora venuta meno all’impegno di fare i conti con lo stalinismo e per onorare questo impegno, la pubblicazione del libro di Robert Conquest sarà di grande aiuto, sia per gli storici che per l’opinione pubblica italiana.
TRATTO DA WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT
TRATTO DA WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT
Ucraina, le colpe della «grande fame»
Otto milioni di morti nei massacri degli anni Trenta. Un convegno analizza la carestia «governata» dal dittatore Stalin per sterminare i piccoli proprietari.
Si squarcia il sudario della memoria che per tanto tempo ha gravato sulla «grande fame». 8 mesi tra 1932 e 1933 che fecero milioni di morti (le cifre variano, ma si parla di almeno otto) in Ucraina, ma anche nel Caucaso settentrionale, nel Volga e nel Kazachistan. E sulle responsabilità dirette del regime staliniano nella politica che scientemente condusse al massacro nell'ambito della dekulakizzazione (l'eliminazione dei piccoli e medi contadini proprietari). Nel 70° dai fatti si sono moltiplicati studi e convegni. Da domani se ne tiene uno internazionale a Vicenza, su iniziativa dell'Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa. La «grande fame» fu un evento tragicamente epocale, purtroppo non unico nella storia dell'ex Urss e di Paesi comunisti come la Cina. E «senza una piena coscienza della grande carestia la comprensione del XX secolo è semplicemente impossibile», è l'opinione di uno dei relatori, Andrea Graziosi dell'Università di Napoli. Fu un crimine contro l'umanità che getta una sinistra luce sul regime sovietico e al tempo stesso è la prova provata che la menzogna è stata un tarlo in un sistema dominato dalla paura. Anche chi ha tentato un'operazione verità (come, con varie motivazioni, Kruscev aveva cominciato a fare) «ha dovuto scoprire conti che non si potevano saldare». Ettore Cinnella (Università di Pisa) indagherà il carteggio tra Stalin e i suoi collaboratori da cui -nonostante le uscite a singhiozzo dei documenti dagli archivi ex sovietici e il doveroso procedere della libera ricerca- emerge un dato chiarissimo: «Il ruolo demiurgico avuto da Stalin nella progettazione e nella messa in atto della collettivizzazione». Colpito fu un intero popolo, in tutte le sue dimensioni, compresa quella religiosa. Delle agitazioni contadine venne incolpata la Chiesa ortodossa. «Non fu un caso quindi, -sostiene Simona Merlo dell'Università Cattolica- che le repressioni dei contadini fossero accompagnate da un inasprimento della lotta contro la Chiesa». L'evento rappresentò una ferita spirituale fortissima. Della quale si sentono ancora gli effetti. Una studiosa dell'Università di Kiev -racconterà al convegno l'ucrainista Sante Graciotti- ha sguinzagliato 165 studenti in varie aree del Paese per intervistare 900 persone. Da esperienze personali o ricordi familiari è emerso -ancora 70 anni dopo- un quadro da tregenda: requisizioni, rapine, fame, morti, cadaveri insepolti, casi di cannibalismo. «Qui cogliamo -sottolinea Graciotti- gli effetti disastrosi della fame anche sulla psiche, oltre che sul senso morale, l'alienazione mentale oltre che quella etica. Il terrore fece tutt'uno con la sofferenza fisica per annientare l'uomo e calarlo a livello subumano». Yuri Scherbak, ambasciatore di Ucraina in Canada (dove risiede una forte comunità in diaspora), cercherà di tracciare un'eredità morale di quegli eventi. C'è ancora chi li nega, come i parlamentari comunisti del Paese. Ma il solo accenno a una crisi del grano per il raccolto di quest'anno ha generato quasi una psicosi nella «memoria genetica» del popolo. Per il diplomatico il genocidio dovrebbe, invece, assumere il suo posto tra i grandi massacri del Novecento ed essere di monito per il presente. Sul ruolo svolto dalla comunità di ucraini in Nordamerica nel risvegliare l'interesse sull'argomento parlerà lo storico Stanislav Kulchytskiy, che tratterà del dibattito svoltosi alla fine degli anni Ottanta, anni cruciali per la fine del sistema al di là della Cortina di ferro.
Anticristo nel granaio Un aspetto interessante della vicenda della grande fame è l'eco che essa ebbe nella letteratura, un tema al quale il convegno vicentino dedicherà una relazione, quella di Oxana Pachlowska, docente alla Sapienza di Roma: «La Madre e l'Anticristo: echi della "grande fame" in letteratura». Va detto che lo stesso Stalin si dotò di un megafono artistico di considerevole portata per ciò che riguarda le sue "grandi opere", la deviazione dei corsi d'acqua e la creazione di canali (vi persero la vita innumerevoli forzati). Ne parla un libro appena uscito in Germania, «Ingegneri dell'anima» (Ch. Links, Berlino) di Frank Westerman, esperto olandese di idraulica e giornalista. Le vicende della fame indotta in vasti territori (l'Ucraina è paradossalmente uno dei granai del mondo) dovevano invece restare sotto la cappa del più assoluto silenzio. Stalin sapeva e ciò bastava. Ve ne sono numerose riprove (tratte dai materiali d'archivio del Cremlino e del Politburo), che faranno da filo rosso all'intervento che lo studioso moscovita Nikolai Ivnitskiy terrà a Vicenza. Nel 1940 il "piccolo padre" discutendo del film «La legge della vita» riconobbe che 20-30 milioni di persone patirono la fame. Discorso che, ovviamente, non fu mai pubblicato. E dalle corrispondenze con i dirigenti locali risulta la consapevolezza di ciò che accadeva: ma era colpa... della reazione contadina ai kolkhoz.
Storici: i perché di un lungo silenzio «Abbiamo sempre considerato il Paese provincia dell'Urss,anche dopo il crollo del Muro se ne è parlato con ritardo» Gabriele De Rosa, animatore del convegno vicentino, aprirà domani i lavori con una prolusione dedicata alla «Storia di un lungo silenzio storico».
Perché questo ritardo degli storici? «Essi hanno sempre considerato l'Ucraina una provincia dell'Unione sovietica. Quindi le sue vicende un fatto interno a quest'ultima. Non hanno mai visto la nazione, hanno ignorato la vicenda che ha portato con la libertà all'indipendenza. Non ci si meravigli che ancora adesso negli atlanti geografici non figuri l'Ucraina come identità in sé».
Cosa significa fare memoria della grande carestia? «Quest'episodio della cosiddetta carestia, della "fame della terra", con circa otto milioni di morti tra trucidati e finiti nel gulag, ha inciso nel memoria collettiva, negli affetti familiari. C'è stato uno sradicamento rabbioso».
Quando si è cominciato a rompere il silenzio? «La prima volta che si è conosciuto questo evento qui in Italia è stato nel 1991 grazie allo studioso Andrea Graziosi, che ha riportato rapporti inediti di diplomatici in Urss, italiani e non, su come si è operato in quei frangenti e sull'enorme peso che quella vicenda ha avuto. A livello mondiale se ne è parlato sempre con molto ritardo, ancora negli anni Novanta, dopo il crollo del muro di Berlino. Anche la testimonianza di Solzenicyn l'abbiamo conosciuta molto tardi. Tutto è legato alla caduta del Muro di Berlino, dopo la quale si è rivelata una realtà disumana che, per così dire, gareggia con quella operata dai nazisti: massacri e sradicamenti violenti con milioni di morti».
Quali prospettive sono da attendere per il futuro? «Gli sviluppi dovrebbero riguardare l'identità dell'Ucraina nell'ambito dell'integrazione europea. Noi parliamo di essa con ragionamenti che riguardano soprattutto il mercato. Importante, per carità. Ma noi sosteniamo e sosterremo in questo convegno che la parte della conoscenza storica riguardo alle sofferenze e al costo della libertà per l'Ucraina, come anche per altri Paesi dell'Est -pensiamo ai Baltici- bisogna metterla nel conto».
Tratto da www.storialibera.it
Si squarcia il sudario della memoria che per tanto tempo ha gravato sulla «grande fame». 8 mesi tra 1932 e 1933 che fecero milioni di morti (le cifre variano, ma si parla di almeno otto) in Ucraina, ma anche nel Caucaso settentrionale, nel Volga e nel Kazachistan. E sulle responsabilità dirette del regime staliniano nella politica che scientemente condusse al massacro nell'ambito della dekulakizzazione (l'eliminazione dei piccoli e medi contadini proprietari). Nel 70° dai fatti si sono moltiplicati studi e convegni. Da domani se ne tiene uno internazionale a Vicenza, su iniziativa dell'Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa. La «grande fame» fu un evento tragicamente epocale, purtroppo non unico nella storia dell'ex Urss e di Paesi comunisti come la Cina. E «senza una piena coscienza della grande carestia la comprensione del XX secolo è semplicemente impossibile», è l'opinione di uno dei relatori, Andrea Graziosi dell'Università di Napoli. Fu un crimine contro l'umanità che getta una sinistra luce sul regime sovietico e al tempo stesso è la prova provata che la menzogna è stata un tarlo in un sistema dominato dalla paura. Anche chi ha tentato un'operazione verità (come, con varie motivazioni, Kruscev aveva cominciato a fare) «ha dovuto scoprire conti che non si potevano saldare». Ettore Cinnella (Università di Pisa) indagherà il carteggio tra Stalin e i suoi collaboratori da cui -nonostante le uscite a singhiozzo dei documenti dagli archivi ex sovietici e il doveroso procedere della libera ricerca- emerge un dato chiarissimo: «Il ruolo demiurgico avuto da Stalin nella progettazione e nella messa in atto della collettivizzazione». Colpito fu un intero popolo, in tutte le sue dimensioni, compresa quella religiosa. Delle agitazioni contadine venne incolpata la Chiesa ortodossa. «Non fu un caso quindi, -sostiene Simona Merlo dell'Università Cattolica- che le repressioni dei contadini fossero accompagnate da un inasprimento della lotta contro la Chiesa». L'evento rappresentò una ferita spirituale fortissima. Della quale si sentono ancora gli effetti. Una studiosa dell'Università di Kiev -racconterà al convegno l'ucrainista Sante Graciotti- ha sguinzagliato 165 studenti in varie aree del Paese per intervistare 900 persone. Da esperienze personali o ricordi familiari è emerso -ancora 70 anni dopo- un quadro da tregenda: requisizioni, rapine, fame, morti, cadaveri insepolti, casi di cannibalismo. «Qui cogliamo -sottolinea Graciotti- gli effetti disastrosi della fame anche sulla psiche, oltre che sul senso morale, l'alienazione mentale oltre che quella etica. Il terrore fece tutt'uno con la sofferenza fisica per annientare l'uomo e calarlo a livello subumano». Yuri Scherbak, ambasciatore di Ucraina in Canada (dove risiede una forte comunità in diaspora), cercherà di tracciare un'eredità morale di quegli eventi. C'è ancora chi li nega, come i parlamentari comunisti del Paese. Ma il solo accenno a una crisi del grano per il raccolto di quest'anno ha generato quasi una psicosi nella «memoria genetica» del popolo. Per il diplomatico il genocidio dovrebbe, invece, assumere il suo posto tra i grandi massacri del Novecento ed essere di monito per il presente. Sul ruolo svolto dalla comunità di ucraini in Nordamerica nel risvegliare l'interesse sull'argomento parlerà lo storico Stanislav Kulchytskiy, che tratterà del dibattito svoltosi alla fine degli anni Ottanta, anni cruciali per la fine del sistema al di là della Cortina di ferro.
Anticristo nel granaio Un aspetto interessante della vicenda della grande fame è l'eco che essa ebbe nella letteratura, un tema al quale il convegno vicentino dedicherà una relazione, quella di Oxana Pachlowska, docente alla Sapienza di Roma: «La Madre e l'Anticristo: echi della "grande fame" in letteratura». Va detto che lo stesso Stalin si dotò di un megafono artistico di considerevole portata per ciò che riguarda le sue "grandi opere", la deviazione dei corsi d'acqua e la creazione di canali (vi persero la vita innumerevoli forzati). Ne parla un libro appena uscito in Germania, «Ingegneri dell'anima» (Ch. Links, Berlino) di Frank Westerman, esperto olandese di idraulica e giornalista. Le vicende della fame indotta in vasti territori (l'Ucraina è paradossalmente uno dei granai del mondo) dovevano invece restare sotto la cappa del più assoluto silenzio. Stalin sapeva e ciò bastava. Ve ne sono numerose riprove (tratte dai materiali d'archivio del Cremlino e del Politburo), che faranno da filo rosso all'intervento che lo studioso moscovita Nikolai Ivnitskiy terrà a Vicenza. Nel 1940 il "piccolo padre" discutendo del film «La legge della vita» riconobbe che 20-30 milioni di persone patirono la fame. Discorso che, ovviamente, non fu mai pubblicato. E dalle corrispondenze con i dirigenti locali risulta la consapevolezza di ciò che accadeva: ma era colpa... della reazione contadina ai kolkhoz.
Storici: i perché di un lungo silenzio «Abbiamo sempre considerato il Paese provincia dell'Urss,anche dopo il crollo del Muro se ne è parlato con ritardo» Gabriele De Rosa, animatore del convegno vicentino, aprirà domani i lavori con una prolusione dedicata alla «Storia di un lungo silenzio storico».
Perché questo ritardo degli storici? «Essi hanno sempre considerato l'Ucraina una provincia dell'Unione sovietica. Quindi le sue vicende un fatto interno a quest'ultima. Non hanno mai visto la nazione, hanno ignorato la vicenda che ha portato con la libertà all'indipendenza. Non ci si meravigli che ancora adesso negli atlanti geografici non figuri l'Ucraina come identità in sé».
Cosa significa fare memoria della grande carestia? «Quest'episodio della cosiddetta carestia, della "fame della terra", con circa otto milioni di morti tra trucidati e finiti nel gulag, ha inciso nel memoria collettiva, negli affetti familiari. C'è stato uno sradicamento rabbioso».
Quando si è cominciato a rompere il silenzio? «La prima volta che si è conosciuto questo evento qui in Italia è stato nel 1991 grazie allo studioso Andrea Graziosi, che ha riportato rapporti inediti di diplomatici in Urss, italiani e non, su come si è operato in quei frangenti e sull'enorme peso che quella vicenda ha avuto. A livello mondiale se ne è parlato sempre con molto ritardo, ancora negli anni Novanta, dopo il crollo del muro di Berlino. Anche la testimonianza di Solzenicyn l'abbiamo conosciuta molto tardi. Tutto è legato alla caduta del Muro di Berlino, dopo la quale si è rivelata una realtà disumana che, per così dire, gareggia con quella operata dai nazisti: massacri e sradicamenti violenti con milioni di morti».
Quali prospettive sono da attendere per il futuro? «Gli sviluppi dovrebbero riguardare l'identità dell'Ucraina nell'ambito dell'integrazione europea. Noi parliamo di essa con ragionamenti che riguardano soprattutto il mercato. Importante, per carità. Ma noi sosteniamo e sosterremo in questo convegno che la parte della conoscenza storica riguardo alle sofferenze e al costo della libertà per l'Ucraina, come anche per altri Paesi dell'Est -pensiamo ai Baltici- bisogna metterla nel conto».
Tratto da www.storialibera.it
Friday, November 24, 2006
Stalin? Era un fan di Hitler
Parla Vojtech Mastny, biografo del dittatore sovietico. «Considerava Hitler un amico e ne ammirava l'efficienza. Ma il leader georgiano era meno potente di quanto si pensasse»
Il Patto di Varsavia segno dell'avanzata di un regime fortissimo? No, piuttosto, un cuscinetto che il timoroso Stalin, conscio della propria debolezza, ha cercato di frapporre tra sé e gli Alleati. La Guerra fredda risultato di reciproco timore? Sì. Ma il potere del leader georgiano era, in realtà, molto sovrastimato dai suoi avversari. A tracciare un nuovo profilo del dittatore comunista e degli anni che portarono all'innalzamento della Cortina di ferro è un libro dello storico Vojtech Mastny, "Il dittatore insicuro. Stalin e la guerra fredda" (Corbaccio pagine 368). Un lavoro uscito due anni fa per la Oxford University Press, che prosegue gli studi di Mastny sulla nascita della divisione del mondo in blocchi iniziato nel 1979 con "Russia's Road to the Cold War" e arricchitosi, poi, con nuove acquisizioni in archivi e istituzioni russi, europei e negli Stati Uniti d'America, dove Mastny vive e insegna, alla John Hopkins University.
Professore, che cosa è lecito aspettarsi, dall'apertura degli archivi, sia in Occidente sia nell'ex Urss?
«Dopo i recenti cambi di governo in Russia c'è da essere scettici sulle prospettive di un'apertura di altri settori documentali negli archivi di quel Paese. Ciò rende di grande importanza la crescente disponibilità di documenti dall'Europa dell'Est. Complementarmente, gli archivi della Nato vengono attualmente catalogati al fine di essere aperti per la prima volta ai ricercatori nel cinquantenario del Patto nell'aprile del 1999».
Pensa che possa venirne una conferma o un impulso anche per gli studi dei crimini comunisti, come il famoso "Libro nero?"
«Ci sono già abbastanza prove per confermare il peggio di ciò che è contenuto nel "Libro nero". Ogni ulteriore dettaglio che può venir fuori potrà solo aggiungere qualche tocco di nero a un quadro già fosco».
Nel suo libro lei sostiene che la «notte dei lunghi coltelli» del 1934 ispirò a Stalin le epurazioni interne. Fu Hitler anche un modello per l'estensione, in epoca staliniana, del sistema concentrazionario sovietico?
«Stalin nutriva una sotterranea ammirazione per Hitler, l'amico dittatore, e l'efficienza tedesca, particolarmente prima di essere vittima dell'attacco nel 1941. Sicuramento era desideroso di imparare dai metodi nazisti, ma non ne aveva certo bisogno. C'era già abbastanza da costruire sulle pratiche di terrore bolsceviche a partire da Lenin. Da quanto conosco non posso dire se il gulag è stato modellato sui campi di concentramento tedeschi. Quello che è chiaro è che avrebbe potuto esistere anche senza quel modello. Dopo tutto l'idea era nota già da quando gli inglesi l'applicarono nella guerra boera (per non parlare della «katorga» nella stessa Russia al tempo dello zar)».
Lei sostiene che Stalin fu sempre preda di un'insicurezza che lo portò a inasprire il suo regime di terrore interno. Ma questa non è, forse la caratteristica di ogni dittatore?
«In un senso più ampia, tutti i dittatori sono insicuri. E si può persino dire che tutti lo siamo in qualche modo. Ma ci sono differenze, particolarmente riguardo a chi detiene il potere. Allora, la questione da porsi è quale differenza ciò provoca, se la provoca, nel fare politica. Nel caso di Stalin ne faceva molta e io ho voluto enfatizzare questo aspetto per contrastare la semplicistica, ed errata immagine di Stalin realista, pragmatico e abile politico. Tutto il contrario, era uno che sbagliava molto».
Questa debolezza di Stalin è stata forse sottovalutata nei rapporti politico militari tra i nascenti blocchi? Insomma, prima dello «scudo stellare» reaganiano, si sarebbe potuti arrivare a far scoppiare le contraddizioni interne al gigante comunista?
«Non sono uno che crede molto alle opportunità perdute di evitare o far terminare prima la guerra fredda. Come storico sono sempre conscio delle molte ragioni per cui i contemporanei di Stalin pensarono e agirono (o non agirono) nel modo in cui fecero. E avrebbero potuto difficilmente farlo in modo diverso. Ciò non ci impedisce di esplorare le altre opzioni che esistevano e di stabilire perché non furono seguite. E con quali conseguenze. Così, sappiamo che al tempo della morte di Stalin la leadership russa si sentiva particolarmente vulnerabile e avrebbe probabilmente sentito molto iil bisogno di rispondere con concessioni se l'Occidente avesse fatto quelle pressioni che non aveva intenzione di applicare».
Perché non lo fece?
«Esagerava la volontà sovietica di ricorrere alle armi. Possiamo anche dire che l'accettazione dell'Unione sovietica brezneviana come altra grande potenza, solo per gli armamenti che aveva, diede alimento a un'idea esagerata sulla vitalità del sistema sovietico, che probabilmente ha procrastinato il suo inevitabile crollo. E con esso la fine della guerra fredda. Ma noi sappiamo anche perché l'Occidente agì come fece e perché sarebbe irragionevole aspettarsi che avesse agito diversamente senza sapere quello che noi oggi sappiamo. Così possiamo dire che la guerra fredda è stata una tragedia inevitabile. Ma senza la sua lunga durata probabilmente non avremmo conosciuto alcuni dei suoi principali benefici».
E quali sarebbero?
«Una guerra estesa in Europa è diventata inconcepibile, le illusioni sull'utilità delle armi nucleari sono state smascherate e, infine, il comunismo è stato irrevocabilmente discreditato».
Eppure negli anni del dopo Muro gli sviluppi negativi, guerra in Jugoslavia, e positivi, riunificazione della Germania, hanno riguardato proprio quelle aree dove Stalin aveva maggiormente fallito dal punto di vista ideologico e strategico.
«Tutto ciò che posso dire è che questi fallimenti hanno stabilito degli stereotipi tra le persone, che hanno reso difficile per loro aspettarsi ciò che è poi realmente avvenuto. Contrariamente alle aspettative la fine della divisione della Germania ha preceduto, anziché seguito, la fine della divisione dell'Europa, e come risultato di un impulso degli stessi tedeschi dell'Est piuttosto che di uno qualsiasi dei poteri esterni. E gli avvenimenti hanno anche contraddetto l'opinione che il modello jugoslavo preparasse meglio le persone alla transizione dal comunismo alla democrazia».
Anche la Russia è investita ora da una grande crisi economico-politica. Vede il pericolo di un ritorno al passato?
«Nella grande tragedia dei russi, popolo segnato più profondamente e catastroficamente dal comunismo di ogni altro è difficile vedere luce nell'immediato futuro. Non ci sono vie per ricostruire il sistema sovietico, lì completamente distrutto, non ci sono abbastanza energie per fare questo e altro. Non vedo un ritorno al passato ma nemmeno vie chiare verso il futuro. Dopo un ulteriore deterioramento dell'economia, potremo assistere a una frammentazione dello Stato, con alcune sue parti alla deriva in varie forme. Ciò che non vedo, comunque, è il possibile ritorno a una minaccia dell'imperialismo russo verso i vicini».
Professore, che cosa è lecito aspettarsi, dall'apertura degli archivi, sia in Occidente sia nell'ex Urss?
«Dopo i recenti cambi di governo in Russia c'è da essere scettici sulle prospettive di un'apertura di altri settori documentali negli archivi di quel Paese. Ciò rende di grande importanza la crescente disponibilità di documenti dall'Europa dell'Est. Complementarmente, gli archivi della Nato vengono attualmente catalogati al fine di essere aperti per la prima volta ai ricercatori nel cinquantenario del Patto nell'aprile del 1999».
Pensa che possa venirne una conferma o un impulso anche per gli studi dei crimini comunisti, come il famoso "Libro nero?"
«Ci sono già abbastanza prove per confermare il peggio di ciò che è contenuto nel "Libro nero". Ogni ulteriore dettaglio che può venir fuori potrà solo aggiungere qualche tocco di nero a un quadro già fosco».
Nel suo libro lei sostiene che la «notte dei lunghi coltelli» del 1934 ispirò a Stalin le epurazioni interne. Fu Hitler anche un modello per l'estensione, in epoca staliniana, del sistema concentrazionario sovietico?
«Stalin nutriva una sotterranea ammirazione per Hitler, l'amico dittatore, e l'efficienza tedesca, particolarmente prima di essere vittima dell'attacco nel 1941. Sicuramento era desideroso di imparare dai metodi nazisti, ma non ne aveva certo bisogno. C'era già abbastanza da costruire sulle pratiche di terrore bolsceviche a partire da Lenin. Da quanto conosco non posso dire se il gulag è stato modellato sui campi di concentramento tedeschi. Quello che è chiaro è che avrebbe potuto esistere anche senza quel modello. Dopo tutto l'idea era nota già da quando gli inglesi l'applicarono nella guerra boera (per non parlare della «katorga» nella stessa Russia al tempo dello zar)».
Lei sostiene che Stalin fu sempre preda di un'insicurezza che lo portò a inasprire il suo regime di terrore interno. Ma questa non è, forse la caratteristica di ogni dittatore?
«In un senso più ampia, tutti i dittatori sono insicuri. E si può persino dire che tutti lo siamo in qualche modo. Ma ci sono differenze, particolarmente riguardo a chi detiene il potere. Allora, la questione da porsi è quale differenza ciò provoca, se la provoca, nel fare politica. Nel caso di Stalin ne faceva molta e io ho voluto enfatizzare questo aspetto per contrastare la semplicistica, ed errata immagine di Stalin realista, pragmatico e abile politico. Tutto il contrario, era uno che sbagliava molto».
Questa debolezza di Stalin è stata forse sottovalutata nei rapporti politico militari tra i nascenti blocchi? Insomma, prima dello «scudo stellare» reaganiano, si sarebbe potuti arrivare a far scoppiare le contraddizioni interne al gigante comunista?
«Non sono uno che crede molto alle opportunità perdute di evitare o far terminare prima la guerra fredda. Come storico sono sempre conscio delle molte ragioni per cui i contemporanei di Stalin pensarono e agirono (o non agirono) nel modo in cui fecero. E avrebbero potuto difficilmente farlo in modo diverso. Ciò non ci impedisce di esplorare le altre opzioni che esistevano e di stabilire perché non furono seguite. E con quali conseguenze. Così, sappiamo che al tempo della morte di Stalin la leadership russa si sentiva particolarmente vulnerabile e avrebbe probabilmente sentito molto iil bisogno di rispondere con concessioni se l'Occidente avesse fatto quelle pressioni che non aveva intenzione di applicare».
Perché non lo fece?
«Esagerava la volontà sovietica di ricorrere alle armi. Possiamo anche dire che l'accettazione dell'Unione sovietica brezneviana come altra grande potenza, solo per gli armamenti che aveva, diede alimento a un'idea esagerata sulla vitalità del sistema sovietico, che probabilmente ha procrastinato il suo inevitabile crollo. E con esso la fine della guerra fredda. Ma noi sappiamo anche perché l'Occidente agì come fece e perché sarebbe irragionevole aspettarsi che avesse agito diversamente senza sapere quello che noi oggi sappiamo. Così possiamo dire che la guerra fredda è stata una tragedia inevitabile. Ma senza la sua lunga durata probabilmente non avremmo conosciuto alcuni dei suoi principali benefici».
E quali sarebbero?
«Una guerra estesa in Europa è diventata inconcepibile, le illusioni sull'utilità delle armi nucleari sono state smascherate e, infine, il comunismo è stato irrevocabilmente discreditato».
Eppure negli anni del dopo Muro gli sviluppi negativi, guerra in Jugoslavia, e positivi, riunificazione della Germania, hanno riguardato proprio quelle aree dove Stalin aveva maggiormente fallito dal punto di vista ideologico e strategico.
«Tutto ciò che posso dire è che questi fallimenti hanno stabilito degli stereotipi tra le persone, che hanno reso difficile per loro aspettarsi ciò che è poi realmente avvenuto. Contrariamente alle aspettative la fine della divisione della Germania ha preceduto, anziché seguito, la fine della divisione dell'Europa, e come risultato di un impulso degli stessi tedeschi dell'Est piuttosto che di uno qualsiasi dei poteri esterni. E gli avvenimenti hanno anche contraddetto l'opinione che il modello jugoslavo preparasse meglio le persone alla transizione dal comunismo alla democrazia».
Anche la Russia è investita ora da una grande crisi economico-politica. Vede il pericolo di un ritorno al passato?
«Nella grande tragedia dei russi, popolo segnato più profondamente e catastroficamente dal comunismo di ogni altro è difficile vedere luce nell'immediato futuro. Non ci sono vie per ricostruire il sistema sovietico, lì completamente distrutto, non ci sono abbastanza energie per fare questo e altro. Non vedo un ritorno al passato ma nemmeno vie chiare verso il futuro. Dopo un ulteriore deterioramento dell'economia, potremo assistere a una frammentazione dello Stato, con alcune sue parti alla deriva in varie forme. Ciò che non vedo, comunque, è il possibile ritorno a una minaccia dell'imperialismo russo verso i vicini».
tratto da Avvenire, 11.10.1998, p. 21. --- www.storialibera.it
Wednesday, November 22, 2006
Dietro la nascita del MSI ...volontà statunitense?
Riporto un articolo del Giornale di oggi che ipotizza un alonga manus a stelle e strisce per la nascita del MSI, fatto per limitare l'egemonia comunista.
La nascita del Msi favorita dai servizi segreti americani? Figurarsi! Si arrabbia su Panorama Pietrangelo Buttafuoco, che le sue uova del drago va a scovarle in tutt'altri nidi. Si infastidisce anche Il Secolo d'Italia, organo di Alleanza Nazionale, al quale l'ipotesi di una precoce collusione dei «repubblichini» con gli ex nemici non va a genio. Giuseppe Parlato, con il suo saggio Fascisti senza Mussolini, di cui riferisce Eugenio Di Rienzo in questa stessa pagina, ha toccato un nervo scoperto della destra.Lo ha fatto da storico, basandosi su una mole di documenti inediti, analizzati con l'acribìa che rivela la scuola di Renzo De Felice. Non a caso infatti Parlato, oggi preside della Facoltà di Storia contemporanea alla «Libera Università San Pio V» di Roma, negli anni '80 era un giovane ricercatore presso la cattedra romana di Storia contemporanea retta da De Felice.
Professor Parlato, come mai queste reazioni irritate alla sua analisi?
«Di primo acchito direi che sono reazioni a caldo,fatte prima di leggere il libro, o almeno di esaminarlo con attenzione. Mi rendo conto che si tratta di un volume un po' ponderoso. Ci ho messo sei anni a scriverlo...».
Pietrangelo Buttafuoco dice che lei «la spara grossa» con la tesi del Movimento sociale benedetto dall'Oss americano.
«È la risposta a una domanda che mi ponevo da tempo: il Movimento sociale viene costituito il 26 dicembre 1946. Come mai nasce in Italia un partito dichiaratamente neofascista, a soli venti mesi dalla fine della guerra civile? Ho esaminato nuovi documenti americani che confermano i contatti (in parte già noti) dei servizi segreti Usa con personaggi come Junio Valerio Borghese, Pino Romualdi, Valerio Pignatelli, tutti esponenti fascisti che già prima della sconfitta avevano lasciato capire agli anglo-americani di essere disponibili a una futura collaborazione in senso anticomunista. Ho persino scoperto una missione dal Nord al Sud, quando proprio Borghese inviò Bartolo Gallitto, guardiamarina della Decima Mas, presso l'ammiraglio Agostino Calosi, capo dell'Ufficio Informazioni della Regia Marina. Ebbene, mi ha colpito il fatto che tutte queste persone, che avevano avuto questo tipo di contatti, parteciparono anche alla fondazione del Msi».E ne ha dedotto una longa manus statunitense?
«Ne ho dedotto che il quadro non era casuale ma derivava da una sostanziale convergenza di interessi: in Italia, Paese che contava il più forte partito comunista dell'Europa occidentale, il rischio di una presa del potere da parte del Pci, con tutto quel che ciò avrebbe comportato in materia di equilibri interni e internazionali, era reale. E questo pericolo era fortemente sentito sia dalle potenze atlantiche sia dai reduci di Salò. Il Movimento sociale nasce quindi con una forte connotazione atlantica, moderata, filoamericana, filoisraeliana».
Sempre Buttafuoco, facendo riferimento al libro di Nicola Rao La Fiamma e la Celtica: sessant'anni di neofascismo, sostiene che Pino Romualdi, a quel tempo latitante perché inseguito da una condanna a morte, si incontrava con Togliatti. E che al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò per la repubblica. Romualdi ha sempre smentito qualsiasi contatto con Togliatti. Ci andarono altri e si incontrarono con emissari del leader comunista che certo non avrebbe rischiato di perdere la faccia con incontri diretti. Quanto al referendum, se fascisti votarono per la repubblica, furono certamente pochi. Primo perché molti erano ancora in prigione o in campo di concentramento, secondo perché la stragrande maggioranza considerava la repubblica pericolosamente tinta di rosso».
Però c'erano i contatti col Pci. «In realtà ci fu una forte attenzione del Pci nei confronti degli ex fascisti, fin dal novembre del 1945. E molti, in effetti, trasmigrarono nelle sue file. La gara a scoprire il fascista nascosto nelle formazioni antifasciste è cosa ormai superata. Ricordo, tra l'altro, che il noto scenografo Ugo Pirro, pseudonimo di Ugo Mattone, componente nel 1944 del gruppo fascista clandestino di Sassari e condannato per questo a undici anni di carcere, è diventato un comunista granitico. Sta di fatto comunque che l'emorragia di ex fascisti nelle file comuniste preoccupava non poco la Democrazia cristiana. Ed è altresì un dato di fatto che questa emorragia si arrestò con la nascita del Msi».
Nascita benedetta, oltre che dagli Usa, anche dalla Dc?
«La Dc certamente consente la nascita del Msi. Scelba chiude un occhio sulle sedi missine che spuntano come funghi in soli sei mesi. Regolarmente documentate nei rapporti che i carabinieri inviavano al ministero dell'Interno. Quando l'Anpi se ne accorse, chiese a Scelba lo scioglimento del Msi. Scelba rispose che lui non poteva farlo, ci voleva l'intervento della magistratura, insomma fece lo gnorri».
Eppure, non molti anni dopo il Movimento sociale si presentava come una formazione fortemente ancorata all'eredità della Repubblica sociale...
«Nel frattempo erano cambiate molte cose. A metà del 1947 De Gasperi estromette il Pci dal governo e la Dc si caratterizza come forza decisamente anticomunista. La strategia di Romualdi del partito atlantista aperto alle forze moderate rischia di far infrangere la navicella missina contro la corazzata democristiana che occupa le stesse posizioni. Non a caso è in quegli anni che naufraga anche un'altra espressione del moderatismo non democristiano, l'Uomo Qualunque. E intanto ai vertici del Msi sale, nel luglio 1947, il giovane Giorgio Almirante che comprende il pericolo e imprime al partito una decisa impronta “identitaria”. L'atlantista Romualdi lo critica - e non a torto - sostenendo che in questo modo si ghettizza il partito, ma intanto Almirante alle elezioni del '48 riesce a portare in parlamento cinque deputati. E di fatto costituzionalizza il Msi». Torniamo all'inizio del nostro discorso: come mai l'avere accostato la nascita del Movimento sociale alla politica estera americana, suscita polemiche a destra?
«Credo che più che altro ci si sia fermati ai titoli della stampa, che suonano sempre inevitabilmente come slogan, senza contestualizzare i fatti. E poi nell'estrema destra, come del resto nel fascismo storico, sono presenti diverse anime, tra cui quella di sinistra. Ma anche quella antiamericana che nasce intorno agli anni '80 fra i giovani seguaci di Pino Rauti. Eppure, per fare un esempio, anche un esponente neofascista decisamente antiamericano come Giorgio Pini, nel 1947 sosteneva il progetto “atlantico” di Romualdi».
E oggi chi sta nella destra oggi? An sappiamo tutti che punta ad arrivare nel PPE perciò a diventare un partito poplare moderato...restano altri partiti a livello nazionale...Riporto i link
http://www.fiammatricolore.net
http://www.destranazionale.us
http://www.forzanuova.org
http://www.misconrauti.org/
Professor Parlato, come mai queste reazioni irritate alla sua analisi?
«Di primo acchito direi che sono reazioni a caldo,fatte prima di leggere il libro, o almeno di esaminarlo con attenzione. Mi rendo conto che si tratta di un volume un po' ponderoso. Ci ho messo sei anni a scriverlo...».
Pietrangelo Buttafuoco dice che lei «la spara grossa» con la tesi del Movimento sociale benedetto dall'Oss americano.
«È la risposta a una domanda che mi ponevo da tempo: il Movimento sociale viene costituito il 26 dicembre 1946. Come mai nasce in Italia un partito dichiaratamente neofascista, a soli venti mesi dalla fine della guerra civile? Ho esaminato nuovi documenti americani che confermano i contatti (in parte già noti) dei servizi segreti Usa con personaggi come Junio Valerio Borghese, Pino Romualdi, Valerio Pignatelli, tutti esponenti fascisti che già prima della sconfitta avevano lasciato capire agli anglo-americani di essere disponibili a una futura collaborazione in senso anticomunista. Ho persino scoperto una missione dal Nord al Sud, quando proprio Borghese inviò Bartolo Gallitto, guardiamarina della Decima Mas, presso l'ammiraglio Agostino Calosi, capo dell'Ufficio Informazioni della Regia Marina. Ebbene, mi ha colpito il fatto che tutte queste persone, che avevano avuto questo tipo di contatti, parteciparono anche alla fondazione del Msi».E ne ha dedotto una longa manus statunitense?
«Ne ho dedotto che il quadro non era casuale ma derivava da una sostanziale convergenza di interessi: in Italia, Paese che contava il più forte partito comunista dell'Europa occidentale, il rischio di una presa del potere da parte del Pci, con tutto quel che ciò avrebbe comportato in materia di equilibri interni e internazionali, era reale. E questo pericolo era fortemente sentito sia dalle potenze atlantiche sia dai reduci di Salò. Il Movimento sociale nasce quindi con una forte connotazione atlantica, moderata, filoamericana, filoisraeliana».
Sempre Buttafuoco, facendo riferimento al libro di Nicola Rao La Fiamma e la Celtica: sessant'anni di neofascismo, sostiene che Pino Romualdi, a quel tempo latitante perché inseguito da una condanna a morte, si incontrava con Togliatti. E che al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò per la repubblica. Romualdi ha sempre smentito qualsiasi contatto con Togliatti. Ci andarono altri e si incontrarono con emissari del leader comunista che certo non avrebbe rischiato di perdere la faccia con incontri diretti. Quanto al referendum, se fascisti votarono per la repubblica, furono certamente pochi. Primo perché molti erano ancora in prigione o in campo di concentramento, secondo perché la stragrande maggioranza considerava la repubblica pericolosamente tinta di rosso».
Però c'erano i contatti col Pci. «In realtà ci fu una forte attenzione del Pci nei confronti degli ex fascisti, fin dal novembre del 1945. E molti, in effetti, trasmigrarono nelle sue file. La gara a scoprire il fascista nascosto nelle formazioni antifasciste è cosa ormai superata. Ricordo, tra l'altro, che il noto scenografo Ugo Pirro, pseudonimo di Ugo Mattone, componente nel 1944 del gruppo fascista clandestino di Sassari e condannato per questo a undici anni di carcere, è diventato un comunista granitico. Sta di fatto comunque che l'emorragia di ex fascisti nelle file comuniste preoccupava non poco la Democrazia cristiana. Ed è altresì un dato di fatto che questa emorragia si arrestò con la nascita del Msi».
Nascita benedetta, oltre che dagli Usa, anche dalla Dc?
«La Dc certamente consente la nascita del Msi. Scelba chiude un occhio sulle sedi missine che spuntano come funghi in soli sei mesi. Regolarmente documentate nei rapporti che i carabinieri inviavano al ministero dell'Interno. Quando l'Anpi se ne accorse, chiese a Scelba lo scioglimento del Msi. Scelba rispose che lui non poteva farlo, ci voleva l'intervento della magistratura, insomma fece lo gnorri».
Eppure, non molti anni dopo il Movimento sociale si presentava come una formazione fortemente ancorata all'eredità della Repubblica sociale...
«Nel frattempo erano cambiate molte cose. A metà del 1947 De Gasperi estromette il Pci dal governo e la Dc si caratterizza come forza decisamente anticomunista. La strategia di Romualdi del partito atlantista aperto alle forze moderate rischia di far infrangere la navicella missina contro la corazzata democristiana che occupa le stesse posizioni. Non a caso è in quegli anni che naufraga anche un'altra espressione del moderatismo non democristiano, l'Uomo Qualunque. E intanto ai vertici del Msi sale, nel luglio 1947, il giovane Giorgio Almirante che comprende il pericolo e imprime al partito una decisa impronta “identitaria”. L'atlantista Romualdi lo critica - e non a torto - sostenendo che in questo modo si ghettizza il partito, ma intanto Almirante alle elezioni del '48 riesce a portare in parlamento cinque deputati. E di fatto costituzionalizza il Msi». Torniamo all'inizio del nostro discorso: come mai l'avere accostato la nascita del Movimento sociale alla politica estera americana, suscita polemiche a destra?
«Credo che più che altro ci si sia fermati ai titoli della stampa, che suonano sempre inevitabilmente come slogan, senza contestualizzare i fatti. E poi nell'estrema destra, come del resto nel fascismo storico, sono presenti diverse anime, tra cui quella di sinistra. Ma anche quella antiamericana che nasce intorno agli anni '80 fra i giovani seguaci di Pino Rauti. Eppure, per fare un esempio, anche un esponente neofascista decisamente antiamericano come Giorgio Pini, nel 1947 sosteneva il progetto “atlantico” di Romualdi».
E oggi chi sta nella destra oggi? An sappiamo tutti che punta ad arrivare nel PPE perciò a diventare un partito poplare moderato...restano altri partiti a livello nazionale...Riporto i link
http://www.fiammatricolore.net
http://www.destranazionale.us
http://www.forzanuova.org
http://www.misconrauti.org/
Sunday, November 05, 2006
Scheletri della SINISTRA - 1^ Puntata
BUDAPEST 1956
-ALLA RICERCA DELLA VERITA' DOPO 50 ANNI DI MENZOGNE -
...Cosa successe a Budapest nel 1956....
Siamo negli anni della DESTALINIZZAZIONE cominciata ufficialmente a febbraio del 1956 al XX Congresso del PCUS dove il leader sovietico Kruscev pronunciò una durissima requisitoria contro il leader Stalin scomparso dal 1953 CONDANNANDO gli arresti di massa e le deportazioni nei gulag.
Il rapporto fu letto solo ai dirigenti del Pcus e MAI pubblicato in URSS ma fu conosicto nel mondo occidnetale destò grande sorpresa. Ma comunque in quel frangente Kruscev non mise in discussione il modello sovietico e la dottrina leniniana.
Il rapporto fu letto solo ai dirigenti del Pcus e MAI pubblicato in URSS ma fu conosicto nel mondo occidnetale destò grande sorpresa. Ma comunque in quel frangente Kruscev non mise in discussione il modello sovietico e la dottrina leniniana.
La conseguenza più esplosiva si ebbe in Ungheria..dove si ebbero delle manifestazioni animate da intellettuali e studenti....in ottobre però queste proteste sfociarono in una vera e propria INSURREZIONE. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy comunista dell' ala liberale già espulso dal partito.Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall' Ungheria. Il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Il 1 novembre 1956 Nagy annunciò l'uscita dell' Ungheria dal Patto di Varsavia , il segretario del partito comunista Janos Kàdàr invocò l'intervento sovietico.
L' Armata Rossa invase Budapest e stroncarono in pochi giorni la resistenza delle milizie popolari. Nagy fu fucilato nei mesi successivi e Kàdàr divenne il Primo Ministro Ungherese. L'intervento sovietico in Ungheria provocò sdegno in Occidente ma fu per l' Unione Sovietica una conferma del suo controllo sui paesi satelliti .
FONTE STORICA : G. Sabbatucci Il Mondo Contemporaneo dal 1848 ad oggi
Come reagì il PCI ?? l'attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, nel '56, non condannò i fatti di Ungheria , era esponsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) ..anche se nei giorni scorsi a Budapest per la ha detto testuali parole " Un dovere politico e morale" ma nel 1956 perchè non lo ha condannato??? Almeno ha avuto il senso critico di dire che aveva ragione Nenni.
Come è strano che oggi tutti gli ex componenti del PCI riabilitano i "compagni" del PSI , del PSDI e del PRI da Nenni a Craxi....che sia campagna acquisti per il futuro Partito Democratico ???