Friday, November 24, 2006

Stalin? Era un fan di Hitler


Parla Vojtech Mastny, biografo del dittatore sovietico. «Considerava Hitler un amico e ne ammirava l'efficienza. Ma il leader georgiano era meno potente di quanto si pensasse»

Il Patto di Varsavia segno dell'avanzata di un regime fortissimo? No, piuttosto, un cuscinetto che il timoroso Stalin, conscio della propria debolezza, ha cercato di frapporre tra sé e gli Alleati. La Guerra fredda risultato di reciproco timore? Sì. Ma il potere del leader georgiano era, in realtà, molto sovrastimato dai suoi avversari. A tracciare un nuovo profilo del dittatore comunista e degli anni che portarono all'innalzamento della Cortina di ferro è un libro dello storico Vojtech Mastny, "Il dittatore insicuro. Stalin e la guerra fredda" (Corbaccio pagine 368). Un lavoro uscito due anni fa per la Oxford University Press, che prosegue gli studi di Mastny sulla nascita della divisione del mondo in blocchi iniziato nel 1979 con "Russia's Road to the Cold War" e arricchitosi, poi, con nuove acquisizioni in archivi e istituzioni russi, europei e negli Stati Uniti d'America, dove Mastny vive e insegna, alla John Hopkins University.

Professore, che cosa è lecito aspettarsi, dall'apertura degli archivi, sia in Occidente sia nell'ex Urss?
«Dopo i recenti cambi di governo in Russia c'è da essere scettici sulle prospettive di un'apertura di altri settori documentali negli archivi di quel Paese. Ciò rende di grande importanza la crescente disponibilità di documenti dall'Europa dell'Est. Complementarmente, gli archivi della Nato vengono attualmente catalogati al fine di essere aperti per la prima volta ai ricercatori nel cinquantenario del Patto nell'aprile del 1999».

Pensa che possa venirne una conferma o un impulso anche per gli studi dei crimini comunisti, come il famoso "Libro nero?"
«Ci sono già abbastanza prove per confermare il peggio di ciò che è contenuto nel "Libro nero". Ogni ulteriore dettaglio che può venir fuori potrà solo aggiungere qualche tocco di nero a un quadro già fosco».

Nel suo libro lei sostiene che la «notte dei lunghi coltelli» del 1934 ispirò a Stalin le epurazioni interne. Fu Hitler anche un modello per l'estensione, in epoca staliniana, del sistema concentrazionario sovietico?
«Stalin nutriva una sotterranea ammirazione per Hitler, l'amico dittatore, e l'efficienza tedesca, particolarmente prima di essere vittima dell'attacco nel 1941. Sicuramento era desideroso di imparare dai metodi nazisti, ma non ne aveva certo bisogno. C'era già abbastanza da costruire sulle pratiche di terrore bolsceviche a partire da Lenin. Da quanto conosco non posso dire se il gulag è stato modellato sui campi di concentramento tedeschi. Quello che è chiaro è che avrebbe potuto esistere anche senza quel modello. Dopo tutto l'idea era nota già da quando gli inglesi l'applicarono nella guerra boera (per non parlare della «katorga» nella stessa Russia al tempo dello zar)».

Lei sostiene che Stalin fu sempre preda di un'insicurezza che lo portò a inasprire il suo regime di terrore interno. Ma questa non è, forse la caratteristica di ogni dittatore?
«In un senso più ampia, tutti i dittatori sono insicuri. E si può persino dire che tutti lo siamo in qualche modo. Ma ci sono differenze, particolarmente riguardo a chi detiene il potere. Allora, la questione da porsi è quale differenza ciò provoca, se la provoca, nel fare politica. Nel caso di Stalin ne faceva molta e io ho voluto enfatizzare questo aspetto per contrastare la semplicistica, ed errata immagine di Stalin realista, pragmatico e abile politico. Tutto il contrario, era uno che sbagliava molto».

Questa debolezza di Stalin è stata forse sottovalutata nei rapporti politico militari tra i nascenti blocchi? Insomma, prima dello «scudo stellare» reaganiano, si sarebbe potuti arrivare a far scoppiare le contraddizioni interne al gigante comunista?
«Non sono uno che crede molto alle opportunità perdute di evitare o far terminare prima la guerra fredda. Come storico sono sempre conscio delle molte ragioni per cui i contemporanei di Stalin pensarono e agirono (o non agirono) nel modo in cui fecero. E avrebbero potuto difficilmente farlo in modo diverso. Ciò non ci impedisce di esplorare le altre opzioni che esistevano e di stabilire perché non furono seguite. E con quali conseguenze. Così, sappiamo che al tempo della morte di Stalin la leadership russa si sentiva particolarmente vulnerabile e avrebbe probabilmente sentito molto iil bisogno di rispondere con concessioni se l'Occidente avesse fatto quelle pressioni che non aveva intenzione di applicare».

Perché non lo fece?
«Esagerava la volontà sovietica di ricorrere alle armi. Possiamo anche dire che l'accettazione dell'Unione sovietica brezneviana come altra grande potenza, solo per gli armamenti che aveva, diede alimento a un'idea esagerata sulla vitalità del sistema sovietico, che probabilmente ha procrastinato il suo inevitabile crollo. E con esso la fine della guerra fredda. Ma noi sappiamo anche perché l'Occidente agì come fece e perché sarebbe irragionevole aspettarsi che avesse agito diversamente senza sapere quello che noi oggi sappiamo. Così possiamo dire che la guerra fredda è stata una tragedia inevitabile. Ma senza la sua lunga durata probabilmente non avremmo conosciuto alcuni dei suoi principali benefici».

E quali sarebbero?
«Una guerra estesa in Europa è diventata inconcepibile, le illusioni sull'utilità delle armi nucleari sono state smascherate e, infine, il comunismo è stato irrevocabilmente discreditato».

Eppure negli anni del dopo Muro gli sviluppi negativi, guerra in Jugoslavia, e positivi, riunificazione della Germania, hanno riguardato proprio quelle aree dove Stalin aveva maggiormente fallito dal punto di vista ideologico e strategico.
«Tutto ciò che posso dire è che questi fallimenti hanno stabilito degli stereotipi tra le persone, che hanno reso difficile per loro aspettarsi ciò che è poi realmente avvenuto. Contrariamente alle aspettative la fine della divisione della Germania ha preceduto, anziché seguito, la fine della divisione dell'Europa, e come risultato di un impulso degli stessi tedeschi dell'Est piuttosto che di uno qualsiasi dei poteri esterni. E gli avvenimenti hanno anche contraddetto l'opinione che il modello jugoslavo preparasse meglio le persone alla transizione dal comunismo alla democrazia».

Anche la Russia è investita ora da una grande crisi economico-politica. Vede il pericolo di un ritorno al passato?
«Nella grande tragedia dei russi, popolo segnato più profondamente e catastroficamente dal comunismo di ogni altro è difficile vedere luce nell'immediato futuro. Non ci sono vie per ricostruire il sistema sovietico, lì completamente distrutto, non ci sono abbastanza energie per fare questo e altro. Non vedo un ritorno al passato ma nemmeno vie chiare verso il futuro. Dopo un ulteriore deterioramento dell'economia, potremo assistere a una frammentazione dello Stato, con alcune sue parti alla deriva in varie forme. Ciò che non vedo, comunque, è il possibile ritorno a una minaccia dell'imperialismo russo verso i vicini».

tratto da Avvenire, 11.10.1998, p. 21.
--- www.storialibera.it

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