Wednesday, November 29, 2006
Quel che ancora non si è detto dopo l’89 di Victor Zaslavsky
Perché Robert Conquest può aiutare la storiografia italiana a riempire un vuoto; cerchiamo di fare il punto sullo sterminio dei Kulaki ucraini.
Rileggi Chi è Robert Conquest e cosa ha pubblicato
Rileggi Chi è Robert Conquest e cosa ha pubblicato
Raccolto di dolore di Robert Conquest sarebbe dovuto uscire in Italia nel 1987 o al più tardi nel 1988. In quel periodo insegnavo in un’università italiana e avevo suggerito alla mia casa editrice di acquisire i diritti del libro di Conquest: mi fu detto che un’altra grande casa editrice italiana aveva già acquistato i diritti e che il libro stava per uscire. Questo importantissimo libro di Conquest finalmente esce ora, con una casa editrice diversa, liberal Edizioni, arricchita da una prefazione di Federigo Argentieri e da una post-fazione di Ettore Cinnella, ambedue ottime, basate sugli ultimi risultati della ricerca storiografica internazionale. Questo, a mio avviso, è l’unico vantaggio proveniente dal ritardo di quasi due decenni con il quale questo libro adesso esce, perché alla fine degli anni Ottanta il libro avrebbe suscitato in Italia un ampio dibattito e avrebbe dato al pubblico italiano un importante strumento per capire le ragioni dell’avvenimento epocale che si stava svolgendo di fronte all’incredula opinione pubblica mondiale: il crollo dell’impero sovietico e lo scioglimento dell’Unione Sovietica come unità politica. Mi vengono in mente molti altri episodi di quel fenomeno che potrebbe essere definito di «censura sotterranea» in Italia, che ha avuto come conseguenza diretta la disinformazione dell’opinione pubblica. Ricordo per esempio i miei i tentativi e quelli di altre persone, cominciati a partire dal 1975, di fare uscire in prima edizione mondiale italiana l’importantissimo romanzo di Vasilij Grossman Vita e destino, che fu poi finalmente pubblicato nel 1984 dopo essere diventato un best-seller in Francia e in Germania. (Non va dimenticato che Grossman ha anche scritto Tutto scorre, pubblicato da Adelphi nel 1987, il miglior romanzo sul Holomodor, come gli ucraini chiamano lo sterminio dei contadini per fame organizzato dal governo staliniano negli anni 1932-’33). Il fatto che l’Italia non abbia ancora fatto i conti con lo stalinismo e l’incomprensione del fenomeno del totalitarismo sono in gran parte dovuti a questa censura morbida, alla deliberata disinformazione diffusa da certe forze politiche e culturali. Dunque l’uscita di questo libro di Robert Conquest dovrebbe sollecitare una riflessione sull’eredità dello stalinismo in Italia e sull’influenza che il totalitarismo ha continuato a esercitare anche fuori dal suo tempo massimo. All’epoca della sua uscita Raccolto di dolore ha suscitato molte controversie tra gli storici del sistema sovietico che prima del crollo dell’Unione Sovietica, della nascita dell’Ucraina indipendente e dell’apertura degli archivi sovietici non potevano essere definitivamente risolte. Le due principali questioni riguardavano il numero delle vittime della fame del 1932-’33 e il carattere di questo sterminio, se cioè era da considerarsi un fenomeno definibile come «pulizia etnica», deliberatamente diretta contro il gruppo degli ucraini, oppure come «pulizia di classe», quindi non centrata su un particolare gruppo etnico. Oggi possiamo dire che entrambe le controversie hanno trovato una risoluzione soddisfacente, grazie ai lavori della comunità scientifica internazionale, agli sforzi degli storici e dei demografi ucraini e russi, e agli studi di storici italiani come Andrea Graziosi, Giorgio Petracchi e altri. La cifra delle vittime del Holomodor, le sue conseguenze demografiche, oscillano tra 3 milioni e mezzo e 4 milioni e mezzo di vittime, come hanno stabilito Stanislav Kulcickij e il demografo russo Maksudov; la differenza dipende dalle metodologie utilizzate e dalla difficoltà di procedere a una valutazione precisa dell’impatto delle migrazioni interne. Le esagerazione degli anni Settanta e Ottanta, quando nelle pubblicazioni della diaspora ucraina in Canada si potevano trovare riferimenti a 10 o 12 milioni di vittime, erano giustificate dall’impossibilità di accesso alle statistiche e ai dati del censimento del 1937. Ricordiamo che per nascondere la cifra delle vittime dello sterminio l’amministrazione staliniana fucilò tutti i dirigenti del Comitato statistico sovietico, sciolse l’Istituto Demografico dell’Accademia delle scienze, distruggendo così l’intera disciplina di demografia nell’Unione Sovietica, e falsificò le cifre sulla crescita della popolazione sovietica nel censimento del 1939. Anche altre controversie sono state risolte come quella secondo cui lo Holomodor non fu nient’altro che la punizione della popolazione ucraina per la sua resistenza alla collettivizzazione, punizione motivata anche da un presunto odio di Stalin verso gli ucraini come gruppo etnico. Secondo Kulcickij, storico ucraino e massima autorità sul problema dello sterminio del ’33, la prevalenza degli ucraini tra le vittime non fu il risultato di una predeterminata azione del governo staliniano contro gli ucraini: la morte dei contadini ucraini fu il risultato di una deliberata politica di confisca delle derrate alimentari, diretta contro un determinato gruppo sociale, cioè i contadini residenti in un certo direttorio. Nell’autunno del ’32, dato che l’Ucraina e la regione del Kuban’, popolata prevalentemente di russi, non raggiunsero le quote delle forniture obbligatorie di grano stabilite dalla pianificazione centrale, lo Stato confiscò alle famiglie contadine non soltanto il grano ma anche le altre derrate alimentari, provocando una terribile carestia e morte per fame. Kulcickij ha esaminato i dati di tutti gli uffici anagrafici regionali e ha stabilito che la morte per fame dipendeva dal luogo di residenza e non dalla nazionalità della vittima. In Ucraina la mortalità di russi e di ebrei che risiedevano nelle città era bassa, dato che chi abitava in città poteva utilizzare le tessere annonarie, mentre la mortalità degli ucraini, ma anche dei polacchi e dei bulgari che in quanto contadini vivevano nelle campagne, era molto alta. I dati sulla mortalità dei contadini russi che risiedevano nelle adiacenti province del Kuban’ erano però simili a quelli ucraini. Vorrei soffermarmi su un altro problema di importanza fondamentale per la storia sovietica e per quella di altri regimi totalitari del Ventesimo secolo. È un problema che continua a essere dibattuto nella storiografia russa ma anche nella cerchia della sinistra europea e in particolar modo in quella italiana: si tratta della definizione di vittima del regime politico staliniano e di come si distingue un criminale comune da un criminale politico. La conta delle vittime del regime totalitario dipende da questa definizione. Lo storico russo Valentin Zemskov ha per primo avuto l’accesso ai dati degli organi di sicurezza statale sul numero dei detenuti nei lager sovietici, in diversi periodi della storia sovietica, sul numero delle sentenze capitali e sulla dinamica delle repressioni: le cifre sono ufficiali e provengono dal Ministero degli Interni. Nelle sue pubblicazioni Zemskov non solo ha dato un’eccessiva fiducia ai dati forniti dagli organi repressivi che erano ovviamente interessati ad abbassare il numero delle vittime, ma ha anche fornito la sua definizione delle vittime del regime totalitario: una definizione che ha influenzato certi studi degli storici occidentali ed è stata ampiamente utilizzata per dare una valutazione generale sugli effetti del totalitarismo sovietico. Ecco la conclusione del giudizio di Zemskov sulla collettivizzazione e sul numero delle sue vittime: «Gli storici includono spesso i morti della fame del ’33 nel novero delle vittime della repressione politica staliniana. Lo Stato con la sua politica fiscale ha commesso un grande crimine contro milioni di contadini, ma questo non giustifica che vengano catalogati come “vittime della repressione politica”: sono stati vittime della politica economica dello Stato». La logica di questo ragionamento è la seguente: lo Stato sovietico promulgò una serie di leggi secondo cui i tentativi dei contadini di nascondere i prodotti alimentari al fine di sfamare la propria famiglia venivano considerati reato punibile con la reclusione in un gulag o addirittura con la pena capitale e definirono i contadini agiati, i cosiddetti kulaki, «nemici del popolo». Le persone condannate sulla base di questi decreti possono essere definite quindi criminali comuni o al massimo vittime di una dura legislazione, ma non vittime dello stalinismo. Questo giudizio è condiviso da alcuni studiosi occidentali, per esempio dallo storico australiano Wheatcroft, che ha paragonato le dimensioni e la natura delle repressioni nei regimi di Stalin e di Hitler seguendo l’approccio suggerito da Zemskov. Wheatcroft cerca di dimostrare che la morte dello sfortunato contadino, definito kulak, per fucilazione o per fame nel campo di lavoro forzato, rientra nel computo delle vittime dello stalinismo, mentre la morte per fame di alcuni suoi figli, rimasti orfani o di quanti si procuravano il pane per loro, deve essere catalogata come una morte prematura, causata da semplice negligenza o da crudeltà e non deve essere presa in considerazione nella comparazione dei crimini nazisti e stalinisti. Questo approccio già fortemente criticato da Robert Conquest e da altri studiosi occidentali è contestato anche oggi da vari storici russi e ucraini perché ignora il fatto che la collettivizzazione fu un’operazione ideologica e non economica. Per esempio, il decreto del gennaio 1930 «Sulle misure per la liquidazione delle aziende dei kulaki» che dichiarò tutti i contadini agiati - senza per altro definire il concetto della presunta agiatezza - come controrivoluzionari e soggetti alla liquidazione, non fu un atto giuridico bensì ideologico, che giustificava il terrore di massa. Fu una parte integrante della politica dello sterminio nei confronti di tutta la classe contadina, non soltanto dei kulaki: lo Stato prevedeva la fame, ne conosceva le dimensioni ma continuava a esportare il grano all’estero, lasciando che milioni di contadini morissero di fame. Storici russi come Vassilij Popov e Vladimir Zima, per sottolineare l’assurdità dell’approccio formalistico agli atti dello Stato totalitario, suggeriscono questo esempio: nel 1947 il governo staliniano promulgò il decreto «Sulla responsabilità penale per il furto della proprietà statale o colcosiana», noto popolarmente come il decreto «Su cinque spighe di grano». Sulla base di questo decreto in un anno sono state condannate e mandate nei lager più di 200 mila persone, in stragrande maggioranza donne colcosiane che per sfamare i propri figli rubavano uno o due chili di grano. Nonostante quell’anno la raccolta fosse stata molto bassa a causa della siccità, lo Stato aumentava le esportazioni di grano all’estero. Pietro Nenni, come ministro degli Esteri italiano, chiese varie volte del grano anche per l’Italia, ma il governo sovietico rispose che non ne aveva perché era già tutto destinato alla Francia, alla Finlandia e così via. Per la statistica sovietica i condannati a causa del decreto «Su cinque spighe» erano quindi criminali comuni: non rientrano dunque nella conta, nei dati e nel metodo interpretativo di Zemskov e di alcuni altri storici politici occidentali. Recentemente anche in Occidente sono ricominciati a circolare numeri molto restrittivi presi dalle ricerche di Zemskov che ridimensionerebbero clamorosamente le repressioni avvenute. Si parla di una cifra intorno ai 3 milioni di condannati durante il periodo staliniano, di cui appena 800 mila giustiziati. In un recente libro sulla storia sovietica, il noto storico Moshe Lewin, valutando il numero delle vittime del terrore di massa staliniano e il suo effetto sulla popolazione sovietica, si basa proprio su dati forniti da Zemskov che risalgono, a loro volta, al viceministro degli Interni staliniano Sergej Kruglov. Insomma, continua a sopravvivere la tradizione intellettuale che giustifica i delitti dello stalinismo con i presunti vantaggi e i benefici che la modernizzazione staliniana avrebbe procurato alla popolazione sovietica. In un articolo pubblicato sul Nouvel Observateur, Rossana Rossanda ha affermato che la repressione stalinista nell’Unione Sovietica fu molto meno severa di quanto si fosse pensato in precedenza e che il numero dei detenuti nei gulag fu solo di due milioni e 631 mila 397 persone, mentre le sentenze capitali eseguite colpirono più o meno 800 mila persone. I numeri calcolati con precisione fino all’ultimo condannato sono abbastanza alti da non richiedere ulteriori esagerazioni, afferma la Rossanda ricordando invece gli effetti benefici dello stalinismo in Unione Sovietica: la creazione del partito dei costruttori del socialismo che ha alfabetizzato le masse, l’aumento della produttività, il rafforzamento dell’urbanizzazione, la liberazione delle donne, la modernizzazione del Paese e infine la vittoria nella guerra contro il nazismo. Se si pensa che nel ’33, quando nelle campagne morivano milioni di contadini, l’Urss esportò 1,8 milioni di tonnellate di grano, non si può non riconoscere che quello dell’Ucraina fu un genocidio organizzato. E non si può non comprendere l’indignazione di un uomo come Alexandr Yakovlev, che è stato a lungo braccio destro di Gorbaciov e che oggi dirige la Fondazione Democrazia, dedita allo studio e alla pubblicazione dei documenti sui crimini del totalitarismo sovietico, di fronte a certe argomentazioni. Si potrebbe notare per esempio, come dimostrano storici come Oleg Chlevniuk, che ci furono quasi 700 mila fucilati in 14 mesi durante il periodo del grande terrore tra il luglio del ’37 e l’ottobre del ’38, mentre nello stesso periodo ci furono circa 350 mila persone morte durante gli interrogatori... Ma forse queste cifre non si mettono in conto, perché non si tratta di condannati. Oggi, alcuni storici russi vicino alle associazioni cercano di condurre una ricerca sulla pratica di rilasciare dai lager detenuti nella fase terminale di vita, per abbellire così la statistica della mortalità; secondo l’approccio degli storici che ho descritto dunque, anche chi è stato rilasciato un mese o qualche settimana prima della morte non rientra nel novero delle vittime dello stalinismo! Ma la discussione sul numero delle vittime e sul significato del terrore staliniano andrà avanti finché quella folta schiera di politici, di professori, di scrittori e di influenti giornalisti europei e americani che mobilitano le loro energie per convincere il pubblico che i tiranni moderni erano liberatori e che i loro imperdonabili crimini, visti da una prospettiva giusta erano nobili azioni, continueranno a scrivere e a mantenere posizioni di prestigio e di utilità. Le loro argomentazione sono tipiche di una certa mentalità, sempre concentrata sulle idee del progresso sociale di cui la gente un giorno sarebbe stata appagata e per la cui ritrattazione non sarebbe stata in grado di apprezzarne la futura felicità. Riflettendo sull’esperienza del Ventesimo secolo, l’eminente filosofo americano Richard Rorty ha scritto: «Il marxismo non fu soltanto una catastrofe per tutti i Paesi in cui i marxisti sono stati al potere, ma anche un disastro per la sinistra riformista in tutti i Paesi dove i marxisti non sono andati al potere». Avendo compiuto il proprio dovere nel fare i conti con il fascismo, la storiografia italiana è finora venuta meno all’impegno di fare i conti con lo stalinismo e per onorare questo impegno, la pubblicazione del libro di Robert Conquest sarà di grande aiuto, sia per gli storici che per l’opinione pubblica italiana.
TRATTO DA WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT
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