Saturday, January 20, 2007
Il fantasma del revisionismo
Chi ha paura e perché dell'unica strada che può portare l'Italia fuori dalla guerra fredda
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it