Saturday, January 20, 2007
Il fantasma del revisionismo
Chi ha paura e perché dell'unica strada che può portare l'Italia fuori dalla guerra fredda
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it
Polemiche storiografiche a tutto campo che vanno dal Risorgimento alla Resistenza passando per la guerra di Spagna. Polemiche sulla faziosità dei libri di testo, polemiche sull'egemonia della sinistra sulla cultura italiana. È ormai da oltre un decennio che l'intera società italiana è attraversata da lacerazioni ideologiche direttamente o indirettamente legate al concetto di «revisionismo». Ed è nostra convinzione che finché non arriverà a compimento quell'operazione Perseo di cui abbiamo parlato nel primo numero di questa rivista, non riusciremo a liberarci dal peso di questa sorta di «guerra civile delle idee», da questo fantasma del «revisionismo» che agita i sonni di molti intellettuali italiani. Prendiamolo dunque ancora una volta per le corna il toro di questa battaglia delle idee che il gruppo Liberal combatte da quando è nato. E facciamolo visitando nelle pagine che seguono, dall'istruzione alla storiografia fino alla politica delle case editrici italiane, l'insieme degli appartamenti che compongono l'edificio, invero assai lesionato, della Cultura italiana. Una cosa assai banale non è purtroppo ancora chiara: il concetto di «revisione» è un concetto in tutto e per tutto coincidente con il concetto di «storiografia». Non c'è, infatti, alcuna storiografia credibile che si rifiuti alla revisione delle letture e delle interpretazioni che di volta in volta le epoche consegnano al confronto pubblico. Fuori da questo metodo si dà solo storiografia di propaganda, un'inveterata attitudine mai scomparsa in Italia di adeguare le proprie ricerche alle convenienze della politica. Ma c'è di più: ci sono periodi della vita pubblica nei quali la revisione (che, evidentemente non è obbligatoria) diventa un imperativo categorico. E non c'è dubbio che alla fine di un secolo «terribile» come il Novecento, l'esigenza della «revisione» emerga in tutta la cultura mondiale come una sorta di dovere essenziale. Per l'Italia, poi, questo dovere si fa ancora più stringente. Perché è universalmente evidente che il nostro Paese, più di qualsiasi altra nazione europea, è stato massimamente «condizionato» dalla guerra civile ideologica che ha punteggiato il secolo. E se siamo tutti d'accordo che è necessario liberarsi dalle ideologie che hanno ostacolato lo sviluppo della nostra modernità, non si vede come lo si possa fare senza «rivedere» la storia che tali ideologie hanno scritto sui libri di testo e no. Bisogna andare oltre la guerra fredda: tutti lo dicono. Ma come farlo senza «rivedere» le categorie di fondo che essa ha indotto nel pensiero comune e nella lettura storiografica? Perché allora agitare il fantasma del revisionismo quando è universalmente accettata, dagli intellettuali italiani di ogni tendenza, l'esigenza di aprire per il Paese la fase post-ideologica? Andiamo allora al cuore del problema. La guerra fredda ha prodotto due circostanze molto gravi per la storia d'Italia. In primo luogo ha prodotto un'espropriazione di sovranità nazionale. A causa del «fattore K», dell'esistenza cioè di un forte partito comunista e della conseguente impossibilità di alternanza al potere, gli italiani sono stati di fatto privati, da un non possumus internazionale e dalla loro coscienza democratica, della possibilità di «cambiare» il potere. In secondo luogo abbiamo subito un'espropriazione di sovranità popolare. E su questo è superfluo dilungarsi dato che è ormai coscienza diffusa che, nella prima Repubblica, sovrano di questo Paese non fu affatto il popolo e nemmeno il Parlamento ma una ristretta quanto robusta oligarchia partitica. Non è poco. Sono due circostanze che non possono che aver segnato, nel profondo, la cultura nazionale, le immagini, le idee, le abitudini di un popolo. Tutto ciò ha finito per creare un grande paradosso storico. Perché la colonna sonora della costruzione della nostra Repubblica fu indubitabilmente suonata dall'antifascismo e orchestrata in primo luogo dalla sinistra comunista. Ma la colonna sonora del reale governo del Paese fu scandita dall'anticomunismo, diretto ovviamente dalla Dc e dai suoi alleati. Grande paradosso, e gravido di conseguenze. Perché la cultura dell'antifascismo divenne cultura nazionale, ma l'anticomunismo, che di fatto fu il cemento di ogni governo, non divenne mai davvero cultura nazionale. Fu qualcosa di cui gli intellettuali si vergognavano, una sorta di «non detto», un «dovere» da nascondere. In questo paradosso sono nate e cresciute intere generazioni. Tanto che ancora oggi, anticomunismo, semplice, banale imput di ogni generica cultura liberale è parola che, in Italia, molti fanno fatica a pronunciare. Di qui la fatica, in particolare in Italia, di costruire una filosofia pubblica normalmente occidentale, cioè antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria. Ecco allora da quali incubi nasce il fantasma del revisionismo. Esso viene agitato infatti da chi non vuole abbandonare i vecchi paradossi e le vecchie anomalie che hanno regnato così a lungo sul nostro spirito nazionale. Attenzione: a parole nessuno nega l'esigenza di costruire una seconda Repubblica anche sul piano ideologico: chi, nei partiti che cambiano nome e tra gli intellettuali che si adeguano, negherà che le storie finora raccontate, le narrazioni, le teologie proposte nel passato non funzionano più?Nessuno. Eppure, non appena la cronaca politico-culturale ne offre il pretesto, ecco riformarsi d'incanto un potente Partito Trasversale Antirevisonista. La verità è che finora in Italia, nonostante le chiacchiere, non abbiamo assistito a nessuna seria revisione. Abbiamo piuttosto assistito al prevalere di uno sbrigativo pentitismo. Con tre giorni di congressi, tre righe di una mozione politica, tre frasi di un'intervista sono stati buttati al mare trenta, quaranta, cinquanta anni di storia, di militanza, di idee, di illusioni. Senza alcuna reale spiegazione storica, senza voler e saper andare a fondo dell'errore, per ripudiare, razionalmente e non emotivamente soltanto, le categorie che avevano pure formato milioni di persone persino intorno a «pensieri criminali». In realtà non è stato e non è il revisioniamo a governare la transizione. Ma, appunto, uno sbrigativo pentitsmo: un'irrefrenabile voglia, in buonafede o per convenienza politica, di cambiare nome, volto, immagine, carta d'identità. Non si sa se la prima Repubblica sia davvero morta, ma certo se è così, si può dire che è morta senza solennità. Ma non solo la nostra Repubblica: anche il secolo Ventesimo si sta chiudendo senza che qualcuno voglia seriamente fare i conti con ciò che esso ha messo in scena. Dalla presa del Palazzo d'inverno all'incendio del Reichstag, da Auschwitz ai gulag fino alla nostra Jugoslavia di oggi, il Novecento è stato costellato di crimini politici e ideologici di ogni sorta. Ed è lì invece, cari faziosi professori Camera e Fabietti, che bisogna ritornare con la mente se vogliamo che essi non si ripetano. Se esiste oggi una missione degli intellettuali, essa consiste appunto nel ribellarsi alla circostanza che la storia di questo secolo si chiuda senza nessuna vera revisione culturale ma soltanto attraverso la massiccia rimozione del pentitismo. In molti abbiamo rimproverato ai nostri padri di essersi svegliati il 26 aprile del '45 improvvisandosi tutti antifascisti senza che fosse vero, senza che, anche lì, nel Paese maturasse una collettiva autoriflessione sul consenso di massa consegnato alla dittatura. Solo De Felice, molti anni dopo, e molto contrastato, ha aiutato l'Italia a intraprendere quel cammino. Evitiamo di cadere ancora nello stesso errore. Oggi sappiamo di essere tutti post-qualcosa. Ma non sappiamo bene post-che cosa. Vogliamo allora rileggere la nostra storia? Vogliamo liberarci del fantasma del revisionismo? Se invece continueremo a raccontarci bugie e, ciò che è peggio, a raccontarle ai nostri ragazzi, non saremo mai in grado di ricostruire l'Italia. Perché senza memoria o con una memoria zoppa e ferita, non si può scrivere nessun futuro. Articolo di Ferdinando Adornato
Tratto da www.liberalfondazione.it
Saturday, January 06, 2007
Il terrore rosso in presa diretta
Lo stalinismo e la sinistra italiana» di Zaslavsky spiega quali furono (e sono) le radici del successo dell'ideologia comunista.
Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla». CONTROLLI SUI «COMPAGNI» Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere». BUDAPEST INSANGUINATA Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.
(www.storialibera.it)
Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla». CONTROLLI SUI «COMPAGNI» Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere». BUDAPEST INSANGUINATA Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.
(www.storialibera.it)